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Sperando che Alan Moore cambi idea…

È facile storcere il naso di fronte a una dissertazione sui cinecomics e certamente sarà arduo liberare questo fortunato genere cinematografico dall’aura di puro entertainment che lo circonda (senza dubbio per sua stessa “colpa”). Eppure, è altrettanto indubitabile che alcuni esempi di tale filone, anche grazie a un’origine fumettistica di valore particolarmente alto, siano da considerare ben più che divertimenti per ragazzi: citando il regista ceco Miloš Forman, «qualsiasi cosa tu faccia in arte è politica», e proprio di politica desidero parlare in questa sede.
Fortunato reduce dei muscolari bassorilievi in movimento di 300 (2007), il regista americano Zack Snyder ha scelto nel 2009 di seguire la propria vocazione di innovatore del cinefumetto e tradurre per il grande schermo il capolavoro di Alan Moore, Watchmen (1986-87), unico graphic novel finora ad essersi aggiudicato il Premio Hugo come miglior prodotto di fantascienza al di fuori del romanzo. Moore, britannico, classe 1953, è personalità e autore di culto, ormai assurto a icona non solo del fumetto ma del mondo dell’arte e di meno noti sottoboschi culturali, esplorati dallo stesso Moore a 360°: romanziere, compositore, anarchico, neopagano, esperto occultista, si è perfino autoproclamato mago e afferma di aver evocato nientemeno che uno spirito-serpente.

È ormai noto (e il film di Snyder non fa eccezione) che lo scrittore rifiuta di affiancare il proprio nome alla produzione delle pellicole tratte dalle sue opere. Ciò che più colpisce è la motivazione fornita dallo stesso Moore: «se vedessimo i fumetti solo in relazione ai film, il meglio che potrebbero mai essere sarebbe film che non si muovono. A metà degli anni ’80 preferii concentrarmi su ciò che solo i fumetti possono ottenere. […] Quindi in un certo senso… la maggior parte dei miei lavori dagli anni ’80 in avanti sono stati realizzati per risultare infilmabili»[1]. Ora, è certamente vero che le due forme d’arte in questione, cinema e fumetto, hanno differenti potenzialità, così come differenti tecniche a sorreggerli. Ma sono davvero così lontani? Cos’altro potrebbe essere lo storyboard che si realizza nella fase preliminare della produzione di un film? E quando si legge un fumetto non risulta forse naturale figurarsi in movimento la scena che stiamo osservando?

Zack Snyder, “Watchmen”, 2009 (Credits: Watchmen © Warner Bros. 2009)

Tale politica di stampo artistico si intreccia in Watchmen alla politica reale, quella che invariabilmente governa le nostre vite: il potere, nelle sue forme più degeneri (come direbbe Fabrizio De Andrè, «non ci sono poteri buoni»), è scandagliato attraverso coloro che ne rappresentano le diverse incarnazioni. Ed è proprio l’eccesso di potere, che richiede a sua volta la reazione di un altro potere, ad attualizzare l’inquietante interrogativo che già nell’antichità aveva attanagliato il poeta Giovenale: chi controlla i controllori? Who Watches the Watchmen? Questi supereroi privi di superpoteri (eccetto il Dottor Manhattan, che ne paga il prezzo perdendo un poco di umanità ad ogni sequenza), segnati da abusi e solitudine, perseguitati dalle proprie ossessioni e inesorabilmente inclini alla violenza, nulla hanno di autenticamente eroico, né potrebbero averlo. L’essere umano è di per sé creatura imperfetta e costantemente vittima della propria natura.

Zack Snyder, "Watchmen", 2009 (Credits: Watchmen © Warner Bros. 2009)
Zack Snyder, “Watchmen”, 2009 (Credits: Watchmen © Warner Bros. 2009)

Zack Snyder paga il proprio tributo di appassionato citando con ogni inquadratura le vignette di Dave Gibbons e i dialoghi di Moore, rendendo la visione del suo Watchmen puro piacere per i fan del fumetto, accessibile anche a chi ne fosse digiuno. Numerose le citazioni da pellicole come Apocalypse now (splendida la sequenza in cui il Dottor Manhattan, onnipotente su tutto tranne che sul cuore umano, polverizza con un semplice gesto il nemico vietnamita) o Matrix, non casuali in un film che ci mostra come il libero uso della forza da parte di pochi eletti costituisca solo una fittizia alternativa alla fascistizzazione della società. La fotografia è morbosamente funerea, la colonna sonora curatissima (e in parte lievemente ironica) e gli attori, fortunatamente non divi di serie A, prestano la giusta carica emotiva a personaggi straordinariamente affascinanti e complessi, in particolare il dolente, irridente Comico di Jeffrey Dean Morgan e l’ineffabile Rorschach di Jackie Earle Haley. La potenza delle immagini in movimento (quelle moving pictures che secondo Erwin Panofsky meglio definiscono l’essenza del cinema) non ha nulla da invidiare a quella delle immagini fumettistiche, e anzi, in casi come questo rende loro notevole servizio: godersi gli splendidi titoli di testa per credere.

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[1] Dez Vylenz, The Mindscape of Alan Moore (documentario), Shadowsnake Films, 2008 [traduzione mia]

CC BY-NC-ND 4.0 Sperando che Alan Moore cambi idea… by Pantoscopio - Cinema e Arte is licensed under a Creative Commons Attribution-NonCommercial-NoDerivatives 4.0 International License.

2 thoughts on “Sperando che Alan Moore cambi idea…

    1. E’ vero, è forse il momento più emozionante… Però questo non sminuisce quello che viene dopo: è solo la giusta introduzione, a mio parere 🙂 E in effetti la cerco spesso sul tubo, non sempre con successo…

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