
«Studiai i nostri costumi nei romanzi, le nostre idee nei trattati di filosofia, cercai perfino di capire quel che i moralisti più severi pretendono da noi e così mi resi conto di quello che si può fare, di quello che si deve pensare e di quel che bisogna apparire. Una volta stabiliti questi tre punti, trovai che solo l’ultimo presentava qualche difficoltà d’esecuzione; ma non disperavo di riuscirci e ne cercai i mezzi opportuni. Cominciavo ad annoiarmi dei miei divertimenti campagnoli, troppo poco vari per un cervello sveglio: sentivo adesso un bisogno di civetteria che mi riconciliava con l’amore, non certo per provarlo, ma per provocarlo, per fingerlo. Invano m’avevano detto, e le mie letture me lo confermavano, che questo sentimento non poteva essere finto: io capivo che per riuscirci bastava unire la fantasia d’un attore allo spirito d’uno scrittore. Mi esercitai nelle due arti, forse con un certo successo, ma invece di cercare inutili applausi pubblici, decisi di sfruttare, per essere felice, quel che tanti sacrificano alla vanità»[1].

È naturalmente la Marchesa de Merteuil a scrivere queste terribili parole al Visconte de Valmont, nello splendido romanzo epistolare di Choderlos De Laclos pubblicato nel 1782 (a rileggerlo oggi sembra impossibile). È interessante osservare che secondo numerosi intellettuali (di sesso maschile) dell’epoca era la donna a dominare la scena, almeno in una dimensione privata: poteva finalmente edificare un piccolo mondo a suo piacere, affollando le stanze della propria casa di specchi e pastorelli di porcellana, com’è nello stile rococò. Si tratta certamente di un magro riscatto rispetto ai secoli bui della condizione femminile, ma è vero che proprio nel Settecento la figura della donna si delinea e si struttura con maggior forza che mai. Molte dame della nobiltà o dell’alta borghesia partecipavano attivamente alla vita pubblica, soprattutto in Francia, in qualità di femmes savantes: la scrittrice e intellettuale Madame d’Epinay, la coltissima avventuriera Madame de Tencin, nientemeno che madre naturale (e snaturata) di D’Alembert, le pittrici Élisabeth Vigée-Le Brun, ritrattista ufficiale della regina Maria Antonietta, e Adélaïde Labille-Guiard, la favorita di Luigi XV Madame de Pompadour e ancora molte altre. Ma la loro condizione restava legata al destino di padri, mariti o amanti, e le lodi che ricevevano erano relative alla superiore condizione maschile. Paragonando un dipinto della Vigée-Le Brun, per l’esattezza un ritratto del compositore Giovanni Paisiello (1791), con uno proprio, il cantore della Rivoluzione francese Jacques-Louis David ebbe modo di dichiarare: «Il mio quadro sembrava dipinto da una donna. Il suo sembrava dipinto da un uomo»[2].
La nostra Marchesa è una variante degenere, o meglio ancora l’altra naturale faccia della medaglia, di queste forti figure intellettuali: da navigata gaudente qual è, sfrutta il suo forte ascendente sulla giovane cugina, promessa sposa di un ex amante, per corromperne l’innocenza. Possiede risorse notevolissime: un’intelligenza machiavellica sostenuta da attente letture, unite ad un fascino cui evidentemente pochi resistono, ma soprattutto la capacità di essere ciò che desidera quando lo desidera. Nel romanzo, al pari del film Le relazioni pericolose (1988) di Stephen Frears, vediamo questa donna di consumata esperienza trattare con lucido distacco il tema della sessualità e farne agli occhi dell’ignara Cécile l’unica via di libertà concessa al genere femminile. Amarissima ironia, dice il vero allo scopo di pervertire, all’interno di un contesto culturale che promuoveva i talenti femminili esclusivamente se accompagnati dall’accondiscendenza che ci si attendeva. E dunque non poteva esistere emancipazione se non la libertà ultima, quella di disporre del proprio corpo, limitata comunque dalla convenzione delle nozze combinate e destinata ad essere vissuta segretamente. Assistiamo dunque ad un caso di femminicidio per mano di una donna: la Marchesa de Merteuil conosce perfettamente i meccanismi della società e vi oppone una silente ribellione che si traduce in una vita di artificio e menzogna. Ben conscia della rovina che ne seguirà, incoraggia la fanciulla a seguire le proprie orme. L’amore non è dunque, per lei come per una buona parte delle sue simili, comunione e complicità, ma puro esercizio di narcisismo intellettuale, allo scopo di vendicare il proprio sesso e al contempo scacciare il grande spettro del XVIII secolo: la noia.

[1] P.A.F. Choderlos de Laclos, Le relazioni pericolose, Roma, Newton&Compton, 2003, pp. 119-120
[2] B. Craveri, postfazione in É. Vigée-Le Brun, Memorie di una ritrattista, Milano, Abscondita, 2006, p. 227
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