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Peter Greenaway: un pittore prestato al cinema

Peter Greenaway, “I misteri del giardino di Compton House”, 1982 (Credits: The Draughtman’s Contract © British Film Institute 1982)

Romanziere, pittore, regista di straordinaria coerenza espressiva, Peter Greenaway, classe 1942, accarezza fin dalla preadolescenza l’idea di seguire la via della pittura, al pari di un altro grande come Federico Fellini. E proprio come Fellini, che lega indissolubilmente la propria arte registica all’imprescindibile fase della messinscena grafica, Greenaway dipinge attraverso quelle moving pictures (quadri in movimento) che, secondo Erwin Panofsky, sostenitore del valore ultimo del linguaggio vivo, meglio definiscono la natura del cinema. A 16 anni, folgorato dalla visione de Il settimo sigillo (1957) di Ingmar Bergman, intimo e solenne affresco delle umane vicende, Greenaway si rivolge proprio all’arte cinematografica come mezzo d’espressione. E se prestiamo attenzione alle parole di Bergman, che aveva dato tradotto in immagini i ricordi più intensi della sua infanzia, è evidente che questa prima tappa rappresenta il più fertile dei germogli: «La mia intenzione è sempre stata “dipingere” nello stesso modo del pittore di quella chiesa medievale, con lo stesso interesse obiettivo, con la stessa tenerezza e gioia».

Eppure, fin dai suoi esordi Greenaway lascia tenerezza e gioia da parte, preferendo loro un’ironia talvolta feroce, una bellezza tenacemente terrena che si tramuta in repulsiva smorfia d’orrore, un interesse quasi scientifico per l’essere umano, che trova in uno sguardo anatomistico la propria funzione politica. Non è certamente un caso che Greenaway realizzi i suoi primi e forse più significativi lungometraggi proprio negli anni ’80, era culturale che subisce ed esalta il riverbero pittorico degli anni ‘70: se il regista inglese inizia il suo percorso con l’inquietante mockumentary The Falls (1980), due anni dopo dirige I misteri del giardino di Compton House (il cui titolo originale suona assai più congruamente The Draughtman’s Contract). Ed ecco che la pittura entra letteralmente dentro il tessuto visivo e l’arte vi si fa più scopertamente spietata cartina al tornasole del sistema: l’artista non potrà che restare schiacciato dai feroci ingranaggi dell’alta società inglese, in una metafora profondamente politica sulla strumentalizzazione delle classi sociali. La grana della tela cinematografica assume la consistenza tattile della tela dipinta: la carnalità, l’intensità dei contrasti cromatici, il rosso del sangue che trascolora nel bianco latteo dell’assoluta purezza, l’oro scintillante e le insondabili ombre di Caravaggio e dei pittori fiamminghi del Seicento, in particolare Rubens e Rembrandt.

Peter Greenaway, "Il cuoco, il ladro, sua moglie e l'amante", 1989Credits: The Cook, the Thief, His Wife and Her Lover" © Allarts e altri 1989
Peter Greenaway, “Il cuoco, il ladro, sua moglie e l’amante”, 1989
Credits: The Cook, the Thief, His Wife and Her Lover” © Allarts e altri 1989

Il tutto offerto agli occhi dello spettatore su di una piattaforma di stampo eminentemente teatrale, com’è particolarmente evidente nell’incipit del capolavoro di Greenaway, Il cuoco, il ladro, sua moglie e l’amante (1989): i coniugi Spica si muovono come personaggi di un bassorilievo su scenografie sapientemente artificiose, per poi accomodarsi a tavola sotto lo sguardo benevolo degli ufficiali ritratti nel 1616 da Frans Hals. Se François Jost sottolinea che si cominciò dal 1729 ad applicare il termine “tela” ai dipinti, per poi identificarlo, in una naturale osmosi, con gli sfondi teatrali[1], Greenaway sembra concretizzarne le teorie. Nel suo teatro dipinto, Greenaway, spesso coadiuvato dalle ipnotiche, vischiose colonne sonore di Michael Nyman, compone sinfonie visive in cui la fanno da padrone gli imperscrutabili, violenti cicli della vita e della morte: l’atroce parabola di decomposizione in Lo zoo di Venere (1985), sotto il segno dell’opera di Jan Vermeer, e la morte in vita del protagonista de Il ventre dell’architetto (1987), perseguitato dall’ossessiva perfezione formale di Étienne-Louis Boullée, non possono che ricondurre alla mente l’opera del grande artista inglese Francis Bacon. Giulio Carlo Argan definì Bacon, che tanto ammirava Rembrandt e Velázquez (di cui rielaborò il ritratto di papa Innocenzo X), «pittore barocco». E se lo stesso Bacon affermava che tutti «siamo potenziali carcasse», per natura triviali e deformi, non c’è dunque paradosso nell’accostare la sua opera  a quella dello stesso Greenaway, tanto più che risulta piuttosto lampante come quest’ultimo si consideri pittore prestato al cinema: definitiva conferma ci giunge dall’ambiziosa serie di video-installazioni a cui si è recentemente dedicato, a cominciare da un’esplorazione de La ronda di notte di Rembrandt e dal lungometraggio Nightwatching (2007), basato sul medesimo tema: un ritorno per interposta (pittorica) persona nella selva oscura dei giardini di Compton House. L’arte è per Greenaway, che non a caso la pone costantemente in connessione con sesso e cibo come forme estreme di possesso, suprema metafora dell’antropofagia, del cannibalismo quotidiano della società, «brutale scoperta della verità sotto la finzione»[2].

Rembrandt van Rijn, “La ronda di notte”, 1642 (Amsterdam – Rijksmuseum)

[1] F. Jost, Il pitto-film, in “Cinema & Cinema: materiali di studio e di intervento cinematografici”, n. 50, 1987

[2] G. C. Argan, L’arte moderna, 1770-1970, Firenze, Sansoni, 1970

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