
Essere donna è più complicato di quanto le donne stesse possano immaginare. Per non parlare dello stabilire di essere donna. La nostra Nina Seyers lo è soltanto a metà: pudica e goffamente elegante, sempre avvolta in tessuti pastello, occhi di fragile cerbiatta atterrita all’idea di veder piombare su di sé la violenza del predatore. E poi c’è Lily, il cui nome è già speculare a quello della protagonista. Lily è tutto ciò che Nina non permette a se stessa di essere: disinibita ai limiti della trasgressione, il corpo libero e felino fasciato di nero, lo sguardo adamantino di una pantera pronta a divorare il frutto proibito. Il bianco e il nero, il volto luminoso e quello oscuro della Luna, che in certe culture si scambiano il ruolo di segno ufficiale del lutto: non a caso sono entrambi colori neutri, dunque due poli di un medesimo universale elemento. Il cigno bianco è il cigno nero e fa bene Thomas Leroy ad attribuirne l’interpretazione ad un’unica donna. La stessa Elisabetta I d’Inghilterra aveva associato alla propria mistica immagine di Regina Vergine abiti bianchi e neri, talvolta screziati da quell’argento che ne lega la figura alla Luna stessa (Cinzia, epiteto della dea Artemide, era uno dei soprannomi di Elisabetta). Nina nota la sensualità naturale e avvolgente di Lily e nel teatro della propria mente fa di lei, personaggio in carne e ossa già sufficientemente sfuggente, l’incarnazione delle parti di sé ancora sepolte sotto la cenere dell’inconscio.

Credits: Black Swan © Fox Searchlight Pictures 2010
La protagonista della vicenda è una sorta di stella binaria, Nina-Lily, la prima impegnata a difendersi e la seconda a riappropriarsi violentemente degli spazi che sempre le sono stati negati, a causa di un’educazione materna all’insegna dell’odio per il maschio-predatore (“Spero non si stia approfittando di te. Non voglio che tu faccia il mio stesso errore” dice la madre a Nina riferendosi all’insinuante direttore della compagnia di ballo). E Il lago dei cigni di Čajkovsji, con tutti i simbolismi del caso (è chiaro che fra Odette e Odile sussiste un legame ben più profondo di un incantesimo), diviene dunque suprema metafora della vita irrimediabilmente distorta di una fanciulla che non è potuta diventare donna, donna che emerge infine con tale rabbioso impeto da provocarne la morte. Una Hölle Rache che la Regina della Notte Nina-Lily compie su se stessa e su di una madre che, vero personaggio chiave della vicenda, è stata incapace di superare il proprio senso di inadeguatezza in favore della figlia. Il dolore di Nina, che esterna i propri conflitti interiori con atti ossessivo-compulsivi, resta estraneo a questa donna irrisolta, frigida e priva di senso materno e ne acutizza soltanto la mania di controllo. “Hai ancora quella disgustosa abitudine… sapevo che non avresti retto”, le dice, prima di “castrarla” metaforicamente con il taglio forzato delle unghie. Ed è naturalmente il sesso la chiave della fatale emancipazione di Nina. Ma ad ogni passo verso la scoperta della sua sessualità Nina viene bloccata, dalla persecutoria comparsa della madre o da allucinazioni sempre più cruente. L’unico modo per vivere la propria dimensione erotica è per interposta persona, ovvero attraverso Lily: con lei, o meglio con se stessa, sperimenta infine il piacere.

Credits: Black Swan © Fox Searchlight Pictures 2010
Grazie ai fugaci e sapienti giochi d’ombra ideati da Darren Aronofsky, lo spettatore non comprende mai con esattezza (e questa è la forza del film) fino a qual punto i vari incontri/scontri con Lily siano mero frutto della mente di Nina. Lampante la sequenza in cui Lily trova Nina sola e dolente, in seguito al trauma della brutale seduzione subita per mano di Leroy: nell’oscurità Lily osserva Nina con inquietante immobilità, eppure, prima dell’ingresso in scena di Mila Kunis, siamo quasi certi di intravedere il volto della stessa Natalie Portman. Affascinante la visione che il regista offre dell’inscindibile legame fra corpo e anima (legame che Platonismo e dogmi religiosi hanno definitivamente reciso e che ancora oggi non comprendiamo appieno): se la Nina cosciente non graffia le proprie carni, lo fa invece la Nina che alberga nel suo inconscio, in un’acuta esplicitazione della malattia psicosomatica. Il cigno nero preme sotto la fragile pelle di Nina e infine erompe. La caduta di Nina nel baratro della follia, una caduta paradossalmente salvifica per la sua identità (come ogni crisi che si rispetti), viene splendidamente resa come metamorfosi “fisica”: al termine di un crescendo sempre più trascinante di episodi allucinatori, Nina (in una delle sequenze più belle del cinema degli ultimi anni) concede definitivamente al proprio dark side di possederne il corpo. È commovente vederla prendere letteralmente il volo,
perdersi nella scoperta di sé: magnifica l’immagine finale della coda di Odile, con le ombre alate dell’inconscio finalmente affiorato a sormontare Nina.

Credits: Black Swan © Fox Searchlight Pictures 2010
Si è spesso detto che Darren Aronofsky è regista di corpi, esploratore anatomico, impietoso occhio costantemente appuntato sulle umanissime carni dei suoi personaggi. Eppure Aronofsky ha compreso che essere regista di corpi equivale ad essere regista di anime: l’erotismo e la consapevolezza della propria presenza fisica sono innanzitutto consapevolezza di se stessi, a maggior ragione in relazione all’identità femminile. Un’ultima nota polemica a questo proposito: fosse stato diretto da una donna, questo film avrebbe molto probabilmente guadagnato l’ambiguo marchio di “film al femminile”. Si tratta al contrario di una sottilissima, viscerale analisi DEL femminile e dei suoi abissi, che è tutta un’altra cosa. E per mano di un uomo.
“Il cigno nero” – Un’analisi non femminile del femminile by Pantoscopio - Cinema e Arte is licensed under a Creative Commons Attribution-NonCommercial-NoDerivatives 4.0 International License.