
Tengo particolarmente, pur non contandolo come mio favorito (i miei gusti sono più orientati verso Francia e in parte Inghilterra), a proporre altri assaggi del Settecento pittorico italiano, stranamente non molto noto alla maggior parte del pubblico italiano stesso. Un caso particolare, quello della veneziana Rosalba Carriera (1675 – 1757), a cavallo fra due epoche come il già citato Fra’ Galgario: innanzitutto per il genere a cui apparteneva, in una società in cui la donna che pretendeva di possedere talenti afferenti alla sfera intellettuale veniva considerata tutt’al più una squisita bizzarria. Come si è però in precedenza rilevato, la figura femminile acquista proprio nel XVIII secolo una nuova luce, che rischiara in particolare le vicende di coloro che si dedicarono alla pittura e al disegno. La Carriera non fa eccezione: le straordinarie doti di penetrazione psicologica, l’abilità di vivere in una società estremamente stratificata come quella settecentesca, la vastità degli interessi fecero di questa artista la ritrattista più richiesta di Venezia e in seguito d’Europa. La tecnica che la Carriera preferiva, ovvero il pastello su carta, si accosta magnificamente alla «melanconica eleganza» e alla «vaporosa elegia» (secondo le acute parole di Roberto Longhi) del suo stile grafico: la sua mano immortala le fattezze del ritrattato come avrebbe potuto fare un Arcimboldo, con nuvole zuccherine e golosa, soffice pasta di mandorle a sostituire i frutti della terra. Ma l’arte di Rosalba Carriera è soprattutto attenta alla mistica della femminilità come si respirava a Venezia, che dai fasti barocchi traslava verso la mai troppo sottolineata complessità del rococò: è sufficiente appuntare lo sguardo sui suoi ritratti di donna per ricevere a nostra volta la seducente risposta di altri sguardi, languidamente vacui, soavemente decadenti.




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