

Ho un rapporto personale piuttosto tormentato con i musical. Fin da quando ero bambina sono stata educata ad apprezzarli, da Jesus Christ Superstar a Rocky Horror Picture Show, e me li sono sempre goduti parecchio. Eppure, non è raro che di fronte ad alcune scene una vocina dentro di me sussurri: «era proprio necessario rendere tutto tanto imbarazzante?» Il canto imbarazza, sì, perché entra dentro e perché, allo spettatore privo di una corretta sospensione dell’incredulità, sembra per sua natura irrealistico. Ho recentemente rivisto Moulin Rouge! (2001) di Baz Luhrmann dopo lunga astinenza e sono rimasta piuttosto colpita dalla mia conseguente reazione: il desiderio impellente di rivedere ancora e ancora le sequenze per me più coinvolgenti, il cromatismo audace e impetuoso (kitsch, direbbero taluni; di un’intensità che mi ricorda l’opera di Dante Gabriel Rossetti, dico io), il turbinio quasi insopportabile delle inquadrature-videoclip, e anche la bellezza iconica di Nicole Kidman (davvero in linea con la femminilità ipnotica e fragilissima di una Elizabeth Siddal).

Ma non è stato solo questo: malgrado pochi lo riconoscano, questo film ha indubitabilmente offerto al pubblico una nuova immagine del musical, un nuovo ritmo di fruizione, fra eccessi di erraticità e interminabili pause emotive. Dopo Moulin Rouge! è stato oggettivamente difficile per il genere affrancarsi dalla sua influenza estetica: ne è un esempio lampante la trasposizione cinematografica (questa kitsch sul serio) di The Phantom of the Opera (2004) diretta da Joel Schumacher (sì, proprio colui che riuscì ad affossare la saga cinematografica su Batman, prima del salvifico intervento di Christopher Nolan). Già simile per stile e soggetto era l’ormai celebre Romeo + Juliet (1996), che fece di Leonardo Di Caprio un idolo generazionale (prima che si scoprisse finalmente attore di rango). Ma Moulin Rouge! gode di una sfrenatezza liberatoria, di una fantasia senza compromessi che lo rende assai più incisivo esteticamente e culturalmente. Degli ideali del movimento bohemién c’è poco o nulla in verità, ed è questo contrasto a rendere il film assai più inquietante di quanto non appaia a un primo sguardo: la bellezza, oh c’è eccome, ma mai così effimera, mai così preda dell’ineluttabilità della morte (non a caso è la più bella di tutte a sfiorire); non c’è verità in un mondo in cui la menzogna spesso può salvare una vita; non c’è libertà alcuna nella vita di queste «creatures of the underworld», che non possono concedersi il lusso (?) di amare. E proprio l’amore, per quanto il finale appaia consolatorio nella sua spiritualità, è il grande sconfitto: l’amore vince solo a teatro, e solo “finché morte non ci separi”.
Fin dai primi minuti sappiamo già come finirà. Ma non sappiamo in che modo, per mano di chi, e soprattutto se almeno in parte quell’amore già condannato (reminiscenze shakespeariane) riuscirà a sottrarre un poco di tempo prezioso al calare della falce. Contribuiscono alla vitalità di un insopprimibile, innocente romanticismo una Parigi chiaramente frutto di fantasia (con il Moulin Rouge come unico punto davvero luminoso e vivo del panorama notturno), Placido Domingo che canta direttamente dalla Luna, Kylie Minogue che emerge ammiccante dall’assenzio, il coadiuvante per eccellenza della creatività bohemiénne, la presenza fondamentale in veste di cantore-autore-attore di Henri de Toulouse-Lautrec, che più di chiunque aveva esplorato dagli abissi all’apice la vita parigina dell’epoca. La macchina da presa corre inarrestabile appresso ai protagonisti, spesso inquadrati in primo piano, concentrandosi sulle emozioni tradite da un gesto, da uno scambio di sguardi, da un moto impercettibile del volto. La colonna sonora, naturalmente oggetto principale di interesse all’epoca dell’uscita, spazia con affascinante e coinvolgente attitudine citazionistica dai Nirvana ai Police, da Björk a David Bowie passando perfino per soundtrack di altri film, per terminare con uno splendido, straziante bolero ad accompagnare i titoli di coda. Nella mia memoria restano vivide sequenze come El Tango de Roxanne e Hindi Sad Diamonds, così come la stupefacente interpretazione operistica di The Show Must Go On (e la strepitosa performance di Jim Broadbent, voce possente del destino in agguato), assai prossima all’identità musicale degli stessi Queen.

La figura di Satine, che entra in scena come Marlene Dietrich ne L’angelo azzurro, è connotata esplicitamente come mercenaria. Eppure, nulla di mercenario ha questa donna dalla seduttività quasi naïf, essenzialmente dolce, il cui tenerissimo cinismo non attende altro che di essere spazzato via. Ricordo quando vidi il film alla sua uscita nelle sale e uscii con la sensazione di aver assistito a una storiella come tante, in cui il bel ragazzo povero si innamora della bella ragazza che non potrà mai essere totalmente sua, così, senza sostanza alcuna. A una seconda visione, ho visto Satine con gli occhi di Christian e Christian con gli occhi di Satine, e ho colto la bellezza di una fiducia reciproca che nasce e l’angoscia della sua fine. A volte il cinema dona anche solo il piacere di un sogno che dura un soffio, quanto l’amore fuori tempo massimo fra Christian e Satine, e bisogna gioirne.
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