
Dal momento che sono un’appassionata di film in costume (ho guardato anche il peggio pur di godermi qualche sprazzo di salto nel tempo), e soprattutto dato che Anna Karenina di Lev Tolstoj (1877) è forse in assoluto il mio romanzo preferito, ho deciso iersera di dare una chance alla trasposizione cinematografica diretta da Joe Wright, già regista di Orgoglio e pregiudizio ed Espiazione. Uscita dal cinema, mi sono detta: devo dormirci sopra, mi sento ubriaca di balletti, giravolte e sete cangianti. Bé, il problema è che la sensazione è rimasta anche questa mattina. Innanzitutto: Wright si crede fin dal suo primo film il migliore regista del mondo. E non sono io a ipotizzarlo, se lo dice da solo: all’interno del commento registrato per il dvd di Orgoglio e pregiudizio, sono innumerevoli le occasioni in cui sottolinea compiaciuto «secondo me in questa sequenza ho fatto un bel lavoro». Wright sembra soffrire una costante ansia di mostrare tutto il suo portfolio di abilità, attitudine palese in Anna Karenina. È inizialmente molto interessante la scelta di ambientare la vicenda su di un palcoscenico teatrale, accennando perfino alla forma del balletto, metafora della crudeltà insita nell’alta società sotto la maschera soffice e zuccherina del lusso e del bon ton. Ma dopo qualche minuto è possibile rendersi conto di quanto tale trovata sia fondamentalmente un mezzo per nascondere la mancanza di un’idea più seria e meditata della storia. Il tronfio pavoneggiarsi della macchina da presa su scenografie sontuose, il rapporto superficiale e mai davvero significativo che si instaura fra occhio cinematografico e teatro, il tripudio incessante di colori, costumi oggettivamente splendidi e gioielli di Chanel sono lì a dimostrarci ciò che Wright disse qualche anno fa al pubblico del Festival di Hay: «fondamentalmente mi piace mettermi in mostra»[1], rivelò, e non c’era bisogno di sottotitoli per questo.
Il casting dei personaggi principali mi è parso quantomeno azzardato, nella sua ambiziosa (arrogante) intenzione di ringiovanire una storia messa in scena decine di volte: Jude Law fa veramente il minimo indispensabile nella parte di Karenin, limitandosi a uno sguardo tristemente sbigottito per tutto il tempo; Aaron Johnson ci ha abituato meglio in passato, ma del resto la sua verve naturale (vedi Nowhere Boy) difficilmente avrebbe trovato spazio in una sceneggiatura (di Tom Stoppard!) che lo vuole fatuo damerino quasi privo di parola (davvero ci si chiede cosa si potrebbe amare di un personaggio tanto carente di personalità, e questo purtroppo va a inficiare quella dimensione realistica a cui invece Tolstoj teneva profondamente). E veniamo a Keira Knightley, della quale si è detto di tutto: avrebbe anche delle potenzialità (certi sguardi sembrano giungere da una sorta di oscuro pozzo emotivo), ma è come se venissero costantemente spinte indietro da una risacca interiore, per abbattersi su di una superficie molto bella ma altrettanto insignificante. E sicuramente non le giova il doppiaggio italiano. Difficilmente è possibile discernere nella sua interpretazione le infinite sfaccettature di Anna, gran dama, madre premurosa, donna virtuosa ma sensuale, inconsapevolmente (?) maliziosa e assetata di assoluto. Tutto resta in potenza, appena percettibile ma inespresso.
Eppure, Joe Wright ha effettivamente un talento, come già mostrato in altri suoi lavori, per la scelta degli interpreti secondari: Domhnall Gleeson nei sobri, virili panni di Levin, Alicia Vikander dolce ma risoluta Kitty (con pochi moti del viso sa dire molto di più di quanto la Knightley tenta di fare in due ore), ma soprattutto l’effervescente Matthew MacFadyen-Oblonskji, allegramente goloso di vita e di donne. È purtroppo prevedibile che la dimensione di saggio psico-socio-cultural-religioso (e forse altro) del romanzo si riduca notevolmente sul grande schermo: eppure mi resta il dubbio che nelle mani di un regista più umile e più colto tali caratteri sarebbero comunque emersi, magari in modo sottile, ma pur sempre emersi. Quello che mi è più dispiaciuto (e qui parlo da affezionata del romanzo) è stato lo scarsissimo spazio concesso al personaggio di Levin, assai più pregnante e incisivo all’interno del romanzo (non per nulla, vi è stata letta una forte componente autobiografica espressa da Tolstoj), e alla tormentatissima evoluzione interiore che prende le mosse dall’amore vissuto con Kitty. Una sintesi perfetta di questo film mi pare il giudizio di Peter Howell, critico del Toronto Star: «it’s a bright red heart without a beat»[2].
[1] http://www.guardian.co.uk/film/filmblog/2007/jun/03/hayfestivalatonement
[2] http://www.thestar.com/entertainment/movies/2012/11/29/anna_karenina_review_not_quite_a_train_wreck.html
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