
Non si può negare che il genio della letteratura a cui il cinema tira maggiormente la giacchetta sia William Shakespeare. Con risultati più o meno validi. In particolare, il suo Hamlet (The Tragedy of Hamlet, Prince of Denmark, composto fra il 1599 e il 1602) sta alla base di più di cinquanta film prodotti: è da ricordare il primo, risalente al 1900 e in verità limitato a un duello di Amleto con Laerte, in cui il principe danese viene interpretato nientemeno che da Sarah Bernhardt. Ebbene sì, una donna: la prima, grande Divina del cinema e già signora del teatro, a cui la nostra Eleonora Duse contese la gloria contrapponendo alla sua recitazione enfatica e manierata la semplicità e la bellezza di un volto segnato dal tempo. Perché Hamlet è in effetti materia eminentemente attoriale: il testo, che riunisce in sé la più straordinaria messe di implicazioni psicanalitiche, sociali, culturali, religiose e quant’altro, è certamente suggestivo ma non fra i più compiuti del Bardo. La maggior parte dell’azione avviene nella mente del protagonista, giovane, coltissimo, accidioso, sempre sul punto di agire e sempre pronto a rimproverarsi di non averlo fatto, non tanto coraggioso quanto incurante, poiché disinteressato, della propria vita.
Personaggio ambiguo, morboso e fagocitante, Amleto è il centro indiscusso dell’opera ed è quasi naturale sofermarsi maggiormente sull’attore protagonista che sul regista, o sulle scelte dietro alla produzione del film. Dopo la celebrata interpretazione di Sir Lawrence Olivier (nel 1948, a ben 41 anni d’età e con accanto una 28enne a fargli da madre, velatissimo accenno al complesso di Edipo) e la sorprendente versione russa, di stampo sofferentemente antisovietico, ad opera di Grigori Kozintsev (1964), fu la volta nel 1990 del nostro Franco Zeffirelli, come al solito insignificante (e complimenti per la scelta veramente stupida del cast, Mel Gibson in testa). Ma nell’immaginario contemporaneo è ancora viva la trasposizione di Kenneth Branagh (1996), che, com’è nel suo stile esclusivamente autocentrato (non a caso dirige se stesso nel ruolo principale), ha scelto di proporci l’intero testo a disposizione e si è concesso il lusso, assai oleografico, di ingaggiare leggende del teatro e del cinema mondiali anche in ruoli di brevi minuti (o addirittura di pochi secondi e perfino muti, come nel caso di Judi Dench-Ecuba e John Gielgud-Priamo). Da notare la scelta banalizzante e anzi nociva di mostrare l’intimità fisica fra Amleto e Ofelia, una strepitosa, carnale Kate Winslet non ancora naufraga del Titanic. Cosa aggiungerebbe l’amplesso fra i due a un testo che saggiamente suggerisce soltanto la profondità del loro legame? L’ambientazione si trasferisce in una indeterminata corte europea dell’Ottocento, all’interno di una tipica abitazione nobiliare del Settecento inglese, con splendidi, freddi costumi e una continua contrapposizione fra bianco e nero: colori neutri per eccellenza, sempre in contrapposizione ma sempre in contatto, e non a caso entrambi legati al lutto. L’insieme è caotico, sfrenato ma al contempo razionalissimo, kitsch ma non privo di un inspiegabile fascino.

Credits: Hamlet © Castle Rock Entertainment 1996
Giusto per dovere di cronaca, cito l’inutile Hamlet 2000 (2000) diretto da Michael Almereyda, di cui ricordo soltanto Ethan Hawke recitare To Be, or Not to Be in un videonoleggio. Fra queste trasposizioni ho volontariamente lasciato da parte quella diretta nel 1969 da Tony Richardson, noto regista del Free Cinema britannico: essa si staglia fra le altre per la scelta estremamente essenziale dello “sfondo”, ovvero della scenografia (il film è ambientato fra le quinte di un teatro), dei costumi, che fanno riferimento al più minimalista dei Rinascimenti, e delle tecniche registiche, che riducono all’osso la presenza dell’occhio cinematografico sul set. Il tutto al pieno servizio dell’unica, vera stella, e, per quanto mi riguarda, l’unico Amleto che mi abbia mai emozionata: il mai troppo compianto Nicol Williamson, che tutti noi conosciamo come il Merlino di Excalibur (1981). L’attore scozzese regge esclusivamente sulle proprie solide spalle un intero film, senza annoiare mai, offrendo a chi apprezza questi sottili piaceri un accento tipicamente nordico che rende le parole di Shakespeare di volta in volta taglienti, ghignanti, tenere, sconfortate, rabbiose, scevre da qualsiasi virtuosismo (alla Kenneth Branagh, per intenderci).

Credits: Hamlet © Woodfall Film Productions 1969
Nessuna traccia dell’apatia lunare, talvolta sconfinante nell’autentica follia, da cui il personaggio è affetto: l’Amleto di Williamson è carne e sangue, una bestia che si dibatte nella gabbia dorata di Elsinore e infine vince e muore, indomita. La scena che più amo rivedere è senz’altro il confronto decisivo fra Amleto e la madre Gertrude, sul rapporto fra i quali si è spesso sprecata tanta psicanalisi postuma: Amleto si scaglia contro Gertrude (Judy Parfitt) con la fiera violenza di chi ama troppo e troppo è rimasto deluso («Have You Eyes?»), per poi, dopo aver ceduto all’impulso omicida, piangere disperato fra le sue braccia, implorarne il pentimento e infine lasciarla sola con i propri fantasmi. Il tutto modulato su di un unico livello di credibilità, facendo percepire allo spettatore un filo conduttore che spesso manca nelle interpretazioni altrui. Se avrete l’occasione di vedere il film, noterete con piacere un giovane Anthony Hopkins nella parte di re Claudio, zio incestuoso e assassino del protagonista, Marianne Faithfull sensuale e languida Ofelia, e la presenza in qualità di comparsa di un’allora sconosciuta Anjelica Huston. Andate in cerca di questo gioiello dimenticato, ne vale davvero la pena. In barba alle sovrainterpretazioni dei narcisi del cinema.

Credits: Hamlet © Woodfall Film Productions 1969
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