
Avendo già citato l’interessante lavoro eseguito da Jane Campion sul romanzo Ritratto di signora, mi piacerebbe oggi parlare del dipinto che, secondo l’affascinante teoria di Viola Papetti[1], starebbe alla base dell’ispirazione di Henry James. Lo stesso autore ce ne offre un’avvolgente descrizione: «La giovane donna vestita di raso nero sta in piedi, con la mano destra piegata che poggia sulla vita, mentre la sinistra con il braccio leggermente proteso mostra allo spettatore un unico fiore bianco… Dietro la figura c’è l’evanescente lucore, di tono squisito, d’una tenda di seta leggera, impalpabile che sfuma in basso. Il volto è giovane, pallido e singolare. Su questi pochi elementi l’artista ha costruito un quadro che è impossibile dimenticare… […] Non so perché questa rappresentazione di una fanciulla in nero, impegnata nel gesto casuale di tenere un fiore, debba produrre un’impressione così indelebile e induca a diventare quasi lirici nelle lodi; ma ricordo che incontrando inaspettatamente il ritratto a New York un anno o due dopo la sua esposizione a Parigi, mi parve che avesse acquistato un pregio straordinario e universale, che simboleggiasse la verità artistica molto meglio di qualsiasi formula»[2].
Il nostro autore si è fatto palesemente sedurre, come è possibile farsi sedurre soltanto da un’opera d’arte: un rapimento che non sfocia nell’incontrollabile sindrome di Stendhal, ma piuttosto nella quieta e fertile necessità di essere a sua volta riposto nella memoria e rielaborato attraverso un’altra forma artistica. Il Ritratto di Miss Burckhardt (1882 – New York, Metropolitan Museum of Art) di John S. Sargent è l’opera che ha provocato questo miracolo creativo. «Europeo nei gusti e nell’educazione – parlava quattro lingue ed era un eccellente pianista – , rimase americano nel modo di pensare e nella moralità»[3]: Sargent fu il cosmopolita per antonomasia, anche nella sua arte, che trova ispirazione in tutto ciò su cui posa l’occhio («Io registro, non giudico!», soleva rispondere ai critici[4]). Ma ciò che appunto più interessa è che Sargent era nato a Firenze da genitori americani: già questo apparente dettaglio ci rivela un legame estetico-culturale fra il pittore e lo scrittore (che in seguito si fece ritrarre più volte da Sargent), in particolare se si pensa alla trama di Ritratto di signora. Non è certamente un caso che James ponga il suo personaggio e la sua storia fra gli americani trapiantati in Europa, una sorta di specie a parte: percepiti come sempiterni turisti con la pretesa di integrarsi e comprendere una realtà storicamente prossima ma già irrimediabilmente lontana, essi vivono a loro volta l’Europa e in particolare l’Italia come un occidentale guarda all’Oriente, da presunto esperto e non da esploratore.
Isabel Archer è preconizzata (pre-iconizzata) dall’autoritaria e maestosa fanciulla in nero, già affaticata dalla vita (la mano destra che si piega pesante sul fianco, un gesto quasi da cuciniera in pausa dal lavoro), il cui fugace sorriso non si rispecchia nello sguardo fondo e triste: quel fiore candido resta l’unica traccia della sua innocenza ed ella lo regge con soave distacco, ben consapevole che la vita (nel caso specifico di Isabel la vita coniugale) ne ha fatto un corpo estraneo. Eppure, sempre in quello sguardo in cui vaga una colpevole rinuncia, è possibile percepire che la perdita dell’innocenza non è stata totalmente involontaria: nel frettoloso slancio di Miss Burckhardt-Isabel verso la vita si cela un impulso di morte, il desiderio di donare senza discernimento la propria rarità al collezionista Osmond. In verità, Isabel è preda di una contorta forma di narcisismo che la spinge a gettarsi nel baratro convinta di poter porre rimedio alla natura del baratro stesso. Tutto ciò, tutta la vita interiore di un personaggio di ineffabile ricchezza qual è Isabel Archer, condensato nel ritratto di colei che per Henry James era una totale sconosciuta. Miracoli della vera arte e delle assonanze culturali.

[1] Introduzione in H. James, Ritratto di signora, Milano, RCS Libri 1998
[2] H. James, John S. Sargent, in La stagione delle mostre, a cura di P. Prandini, Palermo, Novecento 1993, pp. 230-31
[3] A. Gnugnoli, Sargent, Art Dossier, Firenze, Giunti 2002, p.6
[4] Ivi, p. 26
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