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Eyes Wide Shut: la pittura come operatore di coerenza

Stanley Kubrick, "Eyes Wide Shut", 1999Credits: Eyes Wide Shut © Stanley Kubrick Productions e altri 1999

Le relazioni pericolose fra il cinema di Stanley Kubrick e la pittura sono state scandagliate fino allo sfinimento (per una puntuale e molto affascinante sintesi vi rimando a Kubrick e il cinema come arte del visibile di Sandro Bernardi, Il Castoro, 2005). Ma oggi vorrei soffermarmi in particolare su Eyes Wide Shut (1999), che confesso di aver visto nella sua interezza solo qualche giorno fa. Secondo molti opera “definitiva” del regista americano, che morì poco prima di aver concluso il montaggio (lasciando all’amico Steven Spielberg il compito di barcamenarsi con la colonna sonora), il film mi è parso piuttosto l’ultimo di una lunga serie di esempi dell’attitudine kubrickiana nei confronti della natura umana e della Sorte (sì, con la S maiuscola: incontrollabile, circolare, soffocante). Del resto, proprio come in ogni suo film e in modo eccezionalmente palese in Barry Lyndon (1975), la pittura viene sfruttata da Kubrick come operatore di coerenza[1], ovvero come codice che ci consente di decrittare il messaggio insito nella pellicola.

Mandy, la fulgente creatura dai capelli ramati non abbastanza di questo mondo da incarnare la tentazione di Bill, ma che piuttosto si ritaglia un ruolo di eroina romantica, possiede una tipologia di volto, di sensualità spigolosa, di generose forme già condannate a sfiorire, che mi hanno immediatamente ricordato una Elizabeth Siddal, come ritratta dall’amato Dante Gabriel Rossetti. E specialmente la sua Beata Beatrix (1870), con cui Rossetti rende postumo omaggio alla defunta Siddal (una morte le cui circostanze restano poco chiare, ma che pare avvenuta proprio a causa della dipendenza da laudano). Non a caso, dunque, nella caffetteria in cui Bill si rifugia mentre viene pedinato, troviamo appesi alle pareti proprio dipinti afferenti al movimento dei Preraffaelliti e in particolare Astarte Syriaca (1877) di Rossetti e Ofelia (1894) di John William Waterhouse. Da notare che nella caffetteria risuona orgogliosamente un brano tratto dal Requiem (1791) di Mozart, ossia la sequenza Rex Tremendae, la cui traduzione suona così: «Re di tremenda maestà, tu che salvi per tua grazia, salva me, o fonte di pietà». Scelta insolita per un esercizio pubblico in piena New York. Composizione incompiuta per eccellenza, su cui molto si è favoleggiato anche grazie alla connivenza della vedova Mozart, il Requiem è per l’appunto una messa da morto, espressamente dedicata al protagonista.

Dante Gabriel Rossetti, "Beata Beatrix", 1864-1870 (Berlino, Tate Britain)
Dante Gabriel Rossetti, “Beata Beatrix”, 1864-1870 (Berlino, Tate Britain)

Mandy è dunque la Beatrice che viene a salvare questo moderno Dante dai gironi infernali in cui si sta cacciando con le sue stesse mani. Eppure, grazie alla consueta, feroce ironia di Kubrick, ci rendiamo conto che quell’Inferno non è altro che una messinscena (come rivelato a Bill da Victor-Virgilio), e che il protagonista cade inevitabilmente nel ridicolo, nell’impotenza (e così lo sogna la moglie). Ogni volta che Bill sta per cedere (e con quanta facilità!) all’adulterio, la Sorte pone sulla sua strada un ostacolo: «Gioca tu, io guardo», è costretto a rispondere al suo Virgilio dell’alta società. Del resto, Bill è un uomo moderno, e in quanto tale convinto che la donna resti a sua disposizione in quanto appunto donna: essa, nel senso più oggettistico del termine, è esposta ai suoi desideri come esposte ma intoccabili sono le sue pazienti, e come altrettanto sono le donne ritratte da Amedeo Modigliani e Edgar Degas, i cui dipinti possiamo notare sulle pareti del suo studio medico. Ed è infine interessante che proprio nella villa della (fittizia) trasgressione possiamo ammirare dipinti settecenteschi, così come a casa di Victor, colui che più o meno indirettamente fa da catalizzatore delle vicende vissute da Bill (e non a caso è interpretato da un regista), troviamo una notevole collezione di ritratti risalenti in tutta evidenza agli ultimissimi anni del medesimo secolo (il cosiddetto “stile Impero”). Come affermato da Michael Ciment, «il XVIII secolo è per Kubrick un’epoca minata nel profondo, che attende la sua imminente distruzione, e in cui dietro alla facciata delle feste, del lusso e dei piaceri, vagano la morte e la disintegrazione»[2], e di quel secolo la cultura contemporanea è essenzialmente figlia.

Citando proprio Barry Lyndon, mi sembra evidente un legame estetico con questo film, evidente grazie all’uso della luce: se tutti sappiamo che per girare le scene negli interni Kubrick utilizzò un obiettivo firmato NASA, che gli consentiva l’uso delle candele,  è però ugualmente da sottolineare la preponderanza in Barry Lyndon di filtri e gelatine azzurri durante le riprese. Il blu è per Kubrick il colore della malinconia, dello spleen, dell’inesorabilità, «una specie di ‘energia negativa’ che faceva sentire l’’attrazione del nulla’»[3]. Caratteristica che ritroviamo intatta e ancora più potente proprio in Eyes Wide Shut, dove blu è la luce che proviene dall’esterno, che illumina l’adulterio immaginario di Alice; dove blu è infine l’imponente cancello di ingresso nella villa delle orge.  E del resto, per contrasto, è notevole che l’interno del tetto coniugale sia invaso da luce vaporosa e caldissima: eppure, sulle pareti di quell’accogliente dimora, vediamo tanti giardini, tante probabili vie d’uscita, rigogliose e tentatrici. E proprio in un giardino Alice sogna di essere posseduta da innumerevoli sconosciuti sotto lo sguardo impotente del marito. Dunque il blu risulta indissolubilmente legato alla dimensione onirica, all’inconscio, alle infinite possibilità che si rifrangono infine, castrate, contro la barriera della Sorte. Sarà dunque vero che i protagonisti si sono svegliati del tutto? O quel sogno, «che non è mai soltanto un sogno», tornerà a tingere di nevrotico azzurro la loro relazione?

John William Waterhouse, "Ofelia", 1894 (Collezione privata)
John William Waterhouse, “Ofelia”, 1894 (Collezione privata)
Dante Gabriel Rossetti, "Astarte Syriaca", 1877 (Manchester Art Gallery)
Dante Gabriel Rossetti, “Astarte Syriaca”, 1877 (Manchester Art Gallery)

[1] O. Calabrese, Kubrick pittore, “Cinema & Cinema: materiali di studio e di intervento cinematografici”, n. 54/55,

1989, p. 109

[2] M. Ciment, Kubrick, Milano, Rizzoli, 1999, p. 66

[3] S. Bernardi, Kubrick e il cinema come arte del visibile, Milano, Il Castoro, 2005, p. 60

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