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Il resto di niente: il Settecento e la globalizzazione

Antonietta De Lillo, "Il resto di niente", 2004Credits: Il resto di niente © Amedeo Letizia e altri 2004

È un caso che proprio gli anni 2000 abbiano conosciuto una nuova fecondità del legame fra cinema e pittura, e in particolare fra cinema e pittura del Settecento? Certamente no. Se all’interno del panorama delle arti visive occidentali la cultura estetico-sociale del XVIII secolo aveva visto maggior gloria negli anni ’70 e ’80, negli anni ’90 pare invece eclissarsi dietro a trasposizioni prive di una connessione profonda fra media ed epoche storiche (quel ruolo di operatore di coerenza di cui parlava Omar Calabrese). Proprio alla fine degli anni ’90, in cui «le grandi trasformazioni […] vengono percepite […] come un mutamento largamente irreversibile»[1], possiamo collocare il pieno sviluppo del fenomeno della globalizzazione, che trova il proprio definitivo exploit proprio tra la fine del secondo millennio (al 1999 risale ufficialmente la nascita del movimento No-Global) e l’inizio del terzo. L’Occidente si avvede di non ricoprire più un ruolo egemonico nel sistema geopolitico del pianeta: la tigre asiatica, in particolare Cina e India, avanza assai rapidamente, assurgendo al rango di potenza economica di cui tenere debito conto. La globalizzazione e il nuovo assetto internazionale conducono inoltre ad un incontro/scontro di civiltà all’interno del quale non possono non ravvivarsi quei temi a cui la cultura settecentesca aveva donato linfa vitale. Non è quindi un caso che in questi ultimi anni sia emerso un rinnovato interesse di pregnante valore estetico e culturale nei confronti del Settecento e vorrei soffermarmi in particolare su di un esempio italiano, Il resto di niente (2004) di Antonietta De Lillo.

Antonietta De Lillo, "Il resto di niente", 2004<br />Credits: Il resto di niente © Amedeo Letizia e altri 2004
Antonietta De Lillo, “Il resto di niente”, 2004
Credits: Il resto di niente © Amedeo Letizia e altri 2004

Protagonista del film, ispirato al romanzo di Enzo Striano, è Eleonora Pimentel Fonseca (1752 – 1799), la patriota napoletana di origine portoghese e sangue nobile che lottò e morì nel nome degli ideali rivoluzionari di civiltà, in questo caso “importati” senza troppo indagare i desideri del popolo né considerarne la mancata predisposizione al cambiamento (e forse non è peregrino ravvisare un riferimento alla guerra in Iraq scoppiata giustappunto l’anno precedente all’uscita del film). Ma è proprio in quell’idealismo puro e innocente, nella peculiare ottica di una femminilità vissuta prima come disabilità e poi come simulacro di dignità, che la vicenda di Eleonora (a cui soltanto la vibrante Maria de Medeiros, attrice di complesse sfumature, adamantina e tenera, poteva restituire corpo e anima)  si fa interprete del suo secolo come del nostro: «vivere secondo utopia è sacrificare il (proprio) corpo, accettare che il mondo lo tormenti, che la politica lo incenerisca (o lo impicchi) – ma con un’importante correzione: forse non c’è santo degno d’essere amato, che, in qualche modo, non sia (o diventi) donna»[2].

La regista, soffermandosi in particolare sugli inserti grafici che segnano il ritmo del film, realizzati da Oreste Zavola e di chiara dimensione carnevalesca e teatrale, sottolinea di aver avuto un approccio ben meditato con la Storia e la sua cultura visiva: «c’era la volontà di raccontare i passaggi storici non attraverso la finzione narrativa ma tramite immagini, quadri, segni d’epoca ma dotati di forza visiva autonoma. Avevo pensato alle “gouaches” napoletane. […] E mi sembrava che corrispondesse di più il lavoro autonomo di un artista con lo spirito di modernità naturale incastonato nella storia che non il “travestimento” settecentesco delle “gouaches”»[3]. Una scelta estetica il cui principio basilare ritroveremo due anni più tardi in Marie Antoinette di Sofia Coppola, anch’esso un film profondamente legato alla natura del femminile, e che ne fa un saggio antropologico in età contemporanea:

«l’attuale, nel moto stesso di una storia che fluisce, del film […] sta in questo nesso tra desiderio,

festa, godimento, possibilità di un altro mondo, di un mondo nuovo (di un altro sguardo possibile che

avrebbe, sulla base di quella fantasmagoria del movimento, di quella revulsione del tempo che è di

ogni rivoluzione, originato il cinema, come una ionosfera), in quella carica vitale che gioca ad armi

pari e scambio simbolico con la morte e con il doppio sacrificale, con ogni in più irriducibile e

residuale e che in ogni crucialità rivoluzionaria ritorna nella sua differenza (nella Comune come

nell’Internazionale Situazionista, nell’immaginario sessantottino come nel movimento del Settantasette

fino a Seattle e Genova, ai moti no-global)»[4].

 

Antonietta De Lillo, "Il resto di niente", 2004<br />Credits: Il resto di niente © Amedeo Letizia e altri 2004
Antonietta De Lillo, “Il resto di niente”, 2004
Credits: Il resto di niente © Amedeo Letizia e altri 2004

[1] M. Flores, Il secolo-mondo. Storia del Novecento, Bologna, Il Mulino, 2002, p. 475

[2] A. Cappabianca, Un’utopia femminile, “Filmcritica: mensile di cinema, teatro e tv”, n. 555, 2005, p. 243

[3] B. Roberti, (a cura di), Il bisogno vitale dell’essere umano: conversazione con Antonietta De Lillo, “Filmcritica:

mensile di cinema, teatro e tv”, n. 555, 2005, p. 256

[4] B. Roberti, La vertigine del tempo, “Filmcritica: mensile di cinema, teatro e tv”, n. 555, 2005, p. 239

CC BY-NC-ND 4.0 Il resto di niente: il Settecento e la globalizzazione by Pantoscopio - Cinema e Arte is licensed under a Creative Commons Attribution-NonCommercial-NoDerivatives 4.0 International License.

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