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Due volti di Edith Wharton al cinema

Martin Scorsese, “L’età dell’innocenza”, 1993Credits: The Age of Innocence © Columbia Pictures 1993

Piccolo intervallo di vita vissuta: l’opera di Edith Wharton (1862-1937), primo Premio Pulitzer di sesso femminile, ha sempre costituito una vaga attrazione per me. Ricordo quando vidi per la prima volta la trasposizione de L’età dell’innocenza di Martin Scorsese (1993). Durante la visione pensavo: bene, quando si concretizzerà questo rapporto assurdamente platonico? Non capivo allora che proprio l’essenza irresistibile ma socialmente non contemplata delle vere relazioni interpersonali (e soprattutto sentimentali) interessava alla Wharton, e Scorsese aveva magnificamente interpretato. L’età dell’innocenza (1920) e La casa della gioia (1905) sono certamente i romanzi per cui questa scrittrice è più nota, nonché forse i più visitati dalla cinematografia. Personalmente, ho amato follemente il secondo fra i due e molto apprezzato la trasposizione diretta dall’inglese Terence Davies. Sia nella pellicola di Davies che in quella di Scorsese il montaggio segue un ritmo musicale: pare quasi di udire in lontananza le note di un valzer, solenni sì, certamente polite, ma altrettanto polverose e vischiose. Entrambi i film vengono chiaramente concepiti sotto un’influenza pittorica interdipendente, come nel cinema di Kubrick, dalla fedeltà storica: nel caso del film di Scorsese è maniacale l’attenzione per i dettagli (il luccichio delle posate, i merletti degli abiti, le acconciature), così come la grana cromatica (verrebbe da dire la tela dello schermo) è intensa, sensoriale e sensuale, soprattutto quando entrano in scena Ellen Olenska e le sue abbaglianti toelette. La sola presenza fisica di Michelle Pfeiffer è già di per sé una sorta di fiammante, nervosa pennellata, sempre in costante moto, sempre legata al tema cromatico dell’oro e del giallo a indicarne l’originalità e il calore rispetto alla candida, neutra May. Per non parlare dell’utilizzo assai organico e coerente della ritrattistica celebrativa familiare che fa bella mostra di sé durante i momenti conviviali.

Martin Scorsese, “L’età dell’innocenza”, 1993<br />Credits: The Age of Innocence © Columbia Pictures 1993
Martin Scorsese, “L’età dell’innocenza”, 1993
Credits: The Age of Innocence © Columbia Pictures 1993

Nel film di Terence Davies la tessitura pittorica è invece più discreta e poetica, più “europea”, più affine forse ai tocchi leggeri dell’Impressionismo e a certa sobria arte americana dell’Ottocento, e soprattutto a quella medesima giovane donna in nero (ritratta dal più europeo degli artisti americani) che nella mente di Henry James diede un volto a Isabel Archer. Non casuale la prossimità a questo autore, che della Wharton era anche amico personale: proprio fra la figura di Lily e l’altro “giglio” della letteratura americana, classe 1881, si crea infatti un intrigante parallelismo. Come Isabel, anche Lily è un «magnifico spettacolo», secondo le parole dell’unico uomo che desidererebbe averla per ciò che è (ma non abbastanza), così come è altrettanto affaticata dalla vita, seppur per opposte ragioni. Come lei è una sorta d’opera d’arte vivente, che tutti ammirano, ma tenendosi a rigorosa distanza: condizione che si esplicita nella scena ad alto contenuto pittorico dei tableaux vivants, dove una splendida Lily si concede al

Terence Davies, “La casa della gioia”, 2000<br />Credits: The House of Mirth © FilmFour 2000
Terence Davies, “La casa della gioia”, 2000
Credits: The House of Mirth © FilmFour 2000

pubblico nei panni dell’Estate, per feroce ironia la luminosa stagione dell’abbondanza, delle promesse di vita, e, perché no, dei matrimoni. E proprio nel matrimonio sta la legittimazione dell’esistenza femminile nell’America per bene di allora, e forse di oggi. Queste due visioni della letteratura di Edith Wharton si inseguono l’un l’altra e sono entrambe perfettamente valide e coerenti. È particolarmente palese nelle scene ambientate a teatro, che entrambi i registi, seguendo sapientemente le tracce della Wharton, connotano con attitudine complementare come fulcro delle relazioni sociali: Scorsese ne fa il palcoscenico della vita (si veda l’illuminazione sui protagonisti); Davies, forse ancora più sottilmente crudele, ne fa uno sfondo alle squallide chiacchiere dei presenti, dietro alle quali si consuma una tragedia assai più reale.

Terence Davies, “La casa della gioia”, 2000<br />Credits: The House of Mirth © FilmFour 2000
Terence Davies, “La casa della gioia”, 2000
Credits: The House of Mirth © FilmFour 2000
Martin Scorsese, “L’età dell’innocenza”, 1993Credits: The Age of Innocence © Columbia Pictures 1993
Martin Scorsese, “L’età dell’innocenza”, 1993Credits: The Age of Innocence © Columbia Pictures 1993

 

 

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