
Con il proliferare di film e soprattutto serie tv che prendono a pretesto epoche e costumi lontani (soprattutto sulla funesta scia de I Tudors), è veramente prezioso trovare una gemma come Royal Affair (2012). Ciò che più sorprende lo spettatore è l’assistere al racconto di una storia realmente accaduta. Chi mai è venuto a conoscenza di una Rivoluzione danese, proprio negli anni in cui i Lumi spandevano la propria luce su tutta la Francia diffondendosi in tutta Europa? Cristiano VII di Danimarca (1749-1808), che ebbe la fortuna di farsi attribuire da Voltaire l’epiteto di “Luce del Nord”, fu personalità problematica e straordinariamente complessa: dotato di rara intelligenza e acutissima sensibilità, Cristiano sembrava possedere ottime credenziali per governare saggiamente il paese che sarebbe poi divenuto emblema del vivere civile. Ma un’educazione che mirava esplicitamente a minarne la salute e le energie (e conseguentemente a creare un assai opportuno vuoto di potere), indebolì e col tempo debilitò definitivamente la mente del giovane sovrano, salito al trono a 17 anni e maritato alla sorella minore di Giorgio III d’Inghilterra. Quest’ultima costituiva un enigma per la corte e la famiglia reale. Considerata la prossimità fisica che all’epoca era possibile intrattenere con la sovranità, tutti erano ben consapevoli della relazione fredda e straniante che legava la coppia reale. Cristiano, che non esitava a rapportarsi intimamente con prostitute (e con una di queste ebbe una relazione stabile per anni), non aveva il coraggio di avvicinare la sposa, che a sua volta soffriva di malinconia. Questo male di vivere, così come la contemporaneità del valore mercenario del corpo reale, e soprattutto femminile, rappresentano due evidenti caratteri in comune con la vicenda di Marie Antoinette di Francia. Inevitabile, dunque, per il regista Nikolaj Arcel avvicinare fin da subito la figura di Caroline Mathilde con una sensibilità prossima a quella con cui Sofia Coppola ha creato la sua Marie Antoinette, in quella che (piaccia o meno) è ormai pietra miliare del cinema storico. Affascinante anche la scelta di fare proprio della regina di Danimarca il cuore e la voce narrante della storia, a uso dei figli ormai perduti. Ma è certamente la figura di Johann Friedrich Struensee, il medico personale del sovrano, a disorientare e ipnotizzare la corte di allora e il pubblico di oggi. E non è sorprendente, se ad interpretarlo troviamo Mads Mikkelsen, uno di quegli attori che, siamo sicuri, non smetterà mai di stupirci per complessità e capacità di sondare gli abissi dell’anima.

Credits: En Kongelig Affaere © Zentropa Entertainments e altri 2012
Impossibile non sentire nella storia di Struensee e dei suoi 632 decreti di stampo illuminista gli echi di quell’imposizione di idee, perfino di quella “esportazione della democrazia” che non tanto tempo fa è stata accettata come alibi per la tempestiva invasione dell’Iraq, alibi che non a caso Miloš Forman aveva già affrontato sempre con il tramite dell’estetica settecentesca nel sottovalutato L’ultimo inquisitore. Ma ciò che differenzia le rivoluzioni del XVIII secolo dai violenti strattonamenti contemporanei nel tessuto della Storia è l’autenticità dell’interesse, la cosiddetta “buona fede”: i semi che la Rivoluzione danese piantò e irrigò allora, che imputridirono al contatto con un terreno popolare inaridito da secoli di schiavitù, sono infine riemersi oggi, con tutta la forza di quelle idee intrise di profondissimo, genuino Umanesimo. Lo splendido, raggelante Il medico di corte (1999) dello scrittore svedese Per Olov Enquist ha costituito in tutta evidenza una fonte primaria di ispirazione: perfetto saggio storico e al contempo romanzo psicologico, questo libro (di cui consiglio vivamente la lettura) fa da contrappunto al film, in cui Arcel ha la saggezza di non soffermarsi sulla storia d’amore, quanto piuttosto sulle conseguenze di un cambiamento che il popolo non sognava nemmeno di desiderare, e contro cui non poté che ribellarsi. La mano del regista sa cogliere e rielaborare il meglio dal Dogma danese (il film è prodotto dalla Zentropa di Lars von Trier): primissimi piani e camera a mano si fondono coerentemente e naturalmente con inquadrature di natura “pittorica” e contribuiscono a evitare quel pericolo di didascalicità che ogni film storico o in costume ha il dovere di evitare, donando ai personaggi quella vitalità che ci conferma la loro esistenza storica e la passione che ne ha animato i propositi. Un film dai molteplici strati di lettura e magnificamente interpretato.

Credits: En Kongelig Affaere © Zentropa Entertainments e altri 2012
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