
«È un film sbagliato». Questa è stata la prima reazione degli amici con cui sono andata a vedere Pasolini di Abel Ferrara. Sul momento non ero tanto d’accordo: mi sembrava sì un film “strano”, forse incompiuto, uno di quelli su cui pensi «Devo dormirci sopra». Bé, ci ho dormito sopra alcune settimane e ancora oggi non capisco se concordo o meno con gli amici di cui sopra. Forse non ha giovato vederlo doppiato in italiano, chissà, forse Willem Dafoe ha resuscitato Pasolini anche con la voce, oltre che con la sua faccia attraversata da tanti letti di fiume e da tanti pensieri inespressi. Eppure, è più una sensazione legata al montaggio, allo scorrere della storia, piuttosto che all’interpretazione, sepolta in parte proprio da quella somiglianza fisica che tutti hanno definito miracolosa. Certo, è un film desolato e desolante, che parla solo dell’ultimo giorno di vita di un uomo che ha dato all’identità nazionale più di quanto ci piaccia ricordare. E sono tanti i momenti di cui lo spettatore può godere: l’intervista con Furio Colombo, la discesa agli Inferi dei quartieri dove incontra i suoi ragazzi di vita, le scene da Teo-Porno-Kolossal e Petrolio, la partita di calcio, Ninetto Davoli, Adriana Asti e la Laura Betti meravigliosamente incarnata da Maria De Medeiros, le lunghe, (stra)ordinarie conversazioni che ti fanno sentire parte della sua famiglia e della sua casa. Eppure, nonostante tutti questi bei momenti, ci si allontana dal film con la sensazione di un vago spreco, di un’occasione non colta appieno.

Credits: Pasolini © Capricci Films e altri 2014
Sia chiaro: non è obbligatorio raccontare un personaggio di così titaniche dimensioni dispiegandone l’intera biografia e le opere, per quanto fondamentali per la nostra cultura. Anzi, la scelta di affrontarne solo le ultime ore è davvero affascinante e forse rende più giustizia a Pasolini, alla sua vita fatta di attimi e brividi rubati, rispetto a quanto avrebbe fatto il classico biopic. Ma le scene sembrano fatalmente slegate l’una dall’altra, come se Ferrara si fosse sentito intimorito nell’affrontare Pasolini di petto e l’avesse corteggiato a furia di citazioni e fotogrammi ad alto contenuto significante. Il film ha l’indubbio pregio di tenere avvinto lo spettatore fino alla fine, nonostante sia una fine universalmente nota. Molto saggia anche la scelta di non dare ulteriore ascolto alle teorie del complotto sulla morte di Pasolini, molto probabilmente la più ovvia conseguenza delle sue scelte di vita. «Ho trascorso tutta la mia vita con Pasolini», racconta Nico Naldini (cugino di Pasolini, interpretato nel film da Valerio Mastandrea), «l’ho seguito nelle borgate romane. I nostri interessi erano equamente suddivisi: amore per la poesia e amore per i ragazzi. Negli ultimi tempi certi atteggiamenti sadomaso facevano parte di Pier Paolo. Era lui che si martirizzava e questo spiega la sua morte. È tragico e ridicolo insieme volerlo trasformare in una specie di santo laico»[1]. Una cosa soprattutto resta infine in mente, le meravigliose inquadrature che ritraggono il Palazzo della Civiltà Italiana all’EUR di Roma, pittoriche e spietate nella loro fissità: il monumento che nelle intenzioni dovrebbe celebrare il genio creativo del popolo italiano fa da cornice finale alla morte di Pasolini, dopo aver già fatto la propria comparsa all’inizio del film. Nulla è cambiato dopo quella notte squallida e terribile: siamo sempre lo stesso «popolo di poeti, di artisti, di eroi, di santi, di pensatori, di scienziati, di navigatori, di trasmigratori», che ha perso il coraggio di pensare e di navigare in nuove acque.

[1] http://archiviostorico.corriere.it/1995/aprile/06/Morte_senza_complotti_co_0_9504062471.shtml
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