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Perché Barry Lyndon?

Stanley Kubrick era un accanito lettore. Pur non avendo avuto in passato un rendimento scolastico abbastanza alto da permettergli di proseguire gli studi[1], Kubrick si interessava ai temi più disparati e si documentava con una caparbietà ormai leggendaria.

«Da anni avevo nella mia biblioteca le opere complete di Thackeray, ed avevo letto parecchi dei suoi romanzi prima di leggere Barry Lyndon. […] Comunque non appena ebbi letto Barry Lyndon ne rimasi molto impressionato. Amavo la vicenda e i personaggi, e mi parve possibile fare la trasposizione dal romanzo al film senza distruggerlo. Ed esso offriva inoltre l’opportunità di fare una delle cose che il cinema può realizzare meglio di qualunque altra forma d’arte, presentare cioè una vicenda a sfondo storico»[2].

Se Kubrick apprezzava l’opera di Thackeray ancor prima del suo incontro con Barry Lyndon, aveva anche meditato di tradurre in immagini La fiera della vanità, rinunciandovi per timore di non rendere giustizia alla storia «nella durata relativamente breve del lungometraggio»[3]. Perché quindi proprio Barry Lyndon? Innanzitutto, secondo Alberto Crespi, perché il romanzo è scritto nel XIX secolo ma ambientato nel XVIII. Quello che Kubrick cercava era infatti «un approccio mediato alle problematiche culturali di questo secolo, consentito dall’uso di un romanzo ottocentesco che del ‘700 facesse una consapevole satira (letteraria e di costume), dandone una ricostruzione “fantastica” come è costretto a fare, giocoforza, il cineasta di oggi»[4]. Tale percorso cronologico darebbe vita a una consapevole «distanziazione epica», un «raffreddamento della fonte» che si allontana sia dall’«utopia ordinatrice del romanzo illuminista (per cui le contraddizioni del mondo vengono riassorbite nello scioglimento dell’intreccio, nel potere demiurgico del narratore)», sia dai «termini moralistici e vittoriani da cui parte Thackeray per criticarla, avvicinando il film, più che a Thackeray, alle sue fonti dirette», ovvero la letteratura inglese del Settecento[5].

barry lyndon
Stanley Kubrick, “Barry Lyndon”, 1975 (finale di inquadratura dopo una carrellata all’indietro)
Credits: Barry Lyndon © Warner Bros. e altri 1975

Proprio nella prima metà del XVIII secolo avevano fatto la loro comparsa i primi veri esempi di romanzo moderno e di ascesa sociale, prima di tutto nell’Inghilterra di William Hogarth, che si dedicava ai medesimi temi nei suoi cicli pittorici. La società settecentesca e soprattutto quella inglese, a causa della sua identità insulare (sia geografica che culturale), vedeva nel romanzo un’ideale forma d’espressione: in particolare la classe borghese apprezzava proprio quelle vicende in cui l’abilità dell’individuo aveva la meglio sulle ferite inflitte dalla fortuna. Ma il rozzo Redmond Barry non è certo campione di moralità e le sue avventure si concludono come devono concludersi quelle di una canaglia, secondo il lapidario giudizio dello stesso Thackeray: «un furfante resta sempre un furfante […] e non può piacere a nessuno»[6]. Non solo: in Barry si reincarna la figura del picaro, ovvero del truffatore privo di autentica identità. Se infatti Barry Lyndon offre a Kubrick la possibilità di restituire alla Storia la dimensione del visibile senza stravolgere la vicenda narrata, la figura del protagonista ne risulta il contrappunto ideale. Barry è la quint’essenza della natura umana, nella sua infinita, sfuggente contraddittorietà. Se il titolo originale de La fiera della vanità è completato dal sottotitolo «A Novel without a Hero», ugualmente si potrebbe dire riguardo alle vicende di Redmond Barry, come sottolinea lo stesso Kubrick: «Barry è ingenuo e diseducato. […] Verso di lui si provano dei sentimenti ambigui […], ed è impossibile non amarlo nonostante la sua vanità, la sua insensibilità e le sue debolezze. È un personaggio molto reale: non è né un eroe convenzionale né un malvagio convenzionale»[7]. Da personaggio reale Barry viene dunque gradualmente declassato, tramite un’attenta opera di destrutturazione, a pura maschera, ritratto polveroso, fotografia sfocata.

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Stanley Kubrick, “Barry Lyndon”, 1975
Credits: Barry Lyndon © Warner Bros. e altri 1975

Risultato ottenuto solo grazie all’identità spazio-temporale del mezzo cinematografico: è infatti l’occhio documentativo e registrativo della macchina da presa, tramite una meditata scelta dei movimenti, a determinare l’entità degli spazi intorno alla sempre più debole figura di Barry, che ne viene letteralmente fagocitata. La macchina costruisce uno spazio restandovi al di fuori (come si vede nelle inquadrature di stampo maggiormente teatrale, in cui compare pochissima azione e «in cui tutto appare dato fin dall’inizio»[8]) oppure lo distrugge entrandovi violentemente all’interno: ne vediamo alcuni esempi nelle scene in cui, convulsamente seguiti dalla macchina a mano, Barry combatte contro il soldato Toole, o Lady Lyndon si dibatte fra gli spasimi dovuti al veleno. Ma questi due modelli rappresentativi incarnano soltanto i due poli di una gamma espressiva molto vasta e tale «continuo slittamento del punto di vista»[9] genera uno sguardo assolutamente impersonale che confonde le coordinate spazio-temporali dello spettatore. Secondo Sandro Bernardi, Kubrick è infatti maestro nel creare cosiddetti “movimenti immobili”, tramite l’utilizzo di quelle tecniche registiche, come la panoramica, il travelling (o carrellata all’indietro) e i primi piani, che non producono una reale forma di movimento, ma piuttosto lo rappresentano: «in Barry Lyndon non si simula il movimento attraverso la posa, ma piuttosto si simula la posa attraverso il movimento. Il movimento esprime una durata, ma questa durata non ha scopo, non parte da niente e non giunge a niente. È solo un’immagine della durata»[10], una fotografia dello scorrere del tempo. È un caso che Kubrick abbia iniziato la sua carriera proprio in qualità di fotografo?[11] Oltre a praticare regolarmente questa forma artistica durante il corso della sua vita, ne faceva il punto d’arrivo di una precisa volontà estetica. Durante un’intervista, Jack Nicholson racconta infatti che, durante le riprese di Shining (1980), il regista gli disse: «Caro Jack, fare un film non è fotografare la realtà, ma fotografare la fotografia della realtà»[12].

barry lyndon
Stanley Kubrick, “Barry Lyndon”, 1975
Credits: Barry Lyndon © Warner Bros. e altri 1975

[1]     M. Ciment, Kubrick, Milano, Rizzoli, 1999, p. 33

[2]     Ivi 169-172

[3]     Ivi, p. 169

[4]     A. Crespi, “Spazio e tempo in ‘Barry Lyndon’: la quadratura del cerchio”, in G. P. Brunetta (a cura di), Stanley Kubrick. Tempo, spazio, storia e mondi possibili, Parma, Pratiche, 1985, p. 155

[5]     Ivi, p. 156

[6]     S. Bernardi, Kubrick e il cinema come arte del visibile, Milano, Editrice Il Castoro, 2000, p. 55

[7]     Michel Ciment, op. cit., p. 176-177

[8]     S. Bernardi, op. cit., p. 34

[9]     Ivi, p. 38

[10]    Ivi, p. 43

[11]    M. Ciment, op. cit., p. 33

[12]    F. De Berardinis, L’immagine secondo Kubrick, Torino, Lindau, 2003, p. 9

CC BY-NC-ND 4.0 Perché Barry Lyndon? by Pantoscopio - Cinema e Arte is licensed under a Creative Commons Attribution-NonCommercial-NoDerivatives 4.0 International License.

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