
Ero alle scuole medie, e uno dei pochi piaceri che mi dava la scuola era sfogliare in libertà i libri delle mie materie preferite, in particolare quelli di educazione artistica. E proprio una di quelle volte, pagina dopo pagina, ecco che mi si parò davanti la figura femminile più bella che avessi mai visto. Una donna chiaramente aristocratica, come mi confermavano l’abito nero cangiante, gli ornamenti d’oro alle braccia tornite, e il candore della pelle, di un bianco che solo una donna altolocata poteva proteggere al riparo di sontuosi palazzi. Il suo sguardo era provocatorio, ma limpido e onesto, diretto allo spettatore. Ebbi la soddisfazione di copiare quella figura così fisicamente pregnante a matita e tempera, e di giudicarla una copia decorosa (almeno per la mia età).
Era Lady Colin Campbell (1857-1911) come l’aveva ritratta Giovanni Boldini (1842-1931). Donna interessante questa irlandese che sposò un lord, per poi subire la vergogna della sifilide trasmessale dal marito infedele e in seguito un processo di divorzio mai andato a buon fine. Ma Lady Gertrude non si fece intimidire dalla sorte avversa e sfruttò i suoi molteplici talenti per diventare scrittrice e giornalista, e soprattutto per vivere liberamente.

Londra, National Portrait Gallery
Ho avuto la fortuna di visitare la mostra Boldini. Lo spettacolo della modernità ai Musei San Domenico di Forlì, che offrono sempre più mostre di qualità (e non lo dico solo da forlivese, giuro!). Davvero ben fatta questa esposizione, che ci racconta l’artista ferrarese dagli esordi sotto l’ala dei Macchiaioli, passando per le prime affascinanti opere parigine, fino ai magnifici ritratti mondani che trovano nella femminilità il soggetto più invitante. Ho passato la mia domenica mattina a leggere il catalogo dedicato alla mostra, tutto d’un fiato. E ad ogni ritratto che incontravo, correvo verso le ultime pagine per capire chi avevo di fronte: questo è il potere di Boldini, farti desiderare di conoscere il protagonista del ritratto. Non puoi fare a meno di chiederti che cosa abbia conferito loro quello sguardo di volta in volta languido, malinconico, audace.

Roma, Galleria d’Arte moderna
Per molti anni Boldini è stato considerato semplicemente un virtuoso sterile, che non aveva altro da offrire se non una tecnica prodigiosa. Ma perfino chi ne vedeva pienamente i difetti, come l’amico Diego Martelli, non poteva fare a meno di chinare il capo: Boldini «è un tale ammasso di lasciato e di fatto, di falso e di vero, che bisogna prenderlo com’è, e non si vuotare il capo a farci sopra delle teorie; né si può dire che, quando siete davanti a un suo lavoro, possiate non guardarlo, egli vi affascina, vi corbella, vi mette il capo sottosopra; sentite che quella faccenda che avete sotto gli occhi è una profanazione della vostra divinità, ma pur tuttavia ci provate gusto, lo gnomo vi inviluppa, vi sbalordisce, vi incanta, le vostre teorie se ne vanno, egli ha vinto»[1].

E finalmente, dopo essermi immersa in un tripudio di carni madreperlacee, labbra umide e sete traslucide… Ho capito perché fin da bambina resto tanto colpita dai ritratti di Boldini: perché in lui convivono il testimone della moderna nevrosi e l’edonista senza rimpianti, uno sguardo lucidissimo e il piacere dei sensi, il suo tempo e il Settecento. Da qui, proprio dal XVIII secolo, nascono tutti i deliziosi piccoli quadri dipinti nel primo periodo parigino, ma anche le pennellate di pura luce che riportano al Tiepolo («…ho l’intenzione di andare a Venezia, […] andremo a vedere i Tiepolo»[2]), o quell’attenzione premurosa e umana verso l’interiorità dei ritrattati, che ci ricorda Joshua Reynolds e a ritroso Antoon Van Dyck, che giustamente i curatori hanno incluso in mostra.
Andate a vedere questa mostra, riscoprirete il piacere di assaporare con gli occhi. E se invece l’avete già fatto… Che ne pensate?
[1] F. Dini, F. Mazzocca (a cura di), Boldini. Lo spettacolo della modernità, Milano, Silvana Editoriale, 2015, p. 50
[2] Ivi, p. 35
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